Fate silenzio. La mia iniziazione ai vizi e alle virtù del silenzio comincia così. Con questa intimazione che la mia maestra di seconda elementare sibilava ogni giorno entrando in classe. Che ci trovasse o no a fare casino fuori dai banchi.Ora so che in qualche modo quell'alzare preventive barriere era una confessione di fragilità dell'insegnante camuffata da una prova di forza. Ma allora quel richiamo perentorio mi sembrava un insulto alla voglia, al diritto di essere e dire dell'infanzia, che non avverte che l'esuburanza dei corpi e stenta ad adattarsi alle inibizioni del dovere, della punizione, della paura.
A rifletterci, però, quel ricordo diventa una lezione preziosa per misurare l'imperfezione e l'ambiguità del silenzio. Una meta irraggiungibile e indicibile, una condizione dell'essere a cui ci si può solo approssimare per difetto, avvicinarcisi se si acccetta l'invito a farlo il silenzio. A fare, costruire, produrre dentro e fuori di noi qualcosa insomma che gli assomigli. A muovere anche solo qualche passo verso. A inventarlo come risposta personale e collettiva. Ma in direzione diversa dallo star zitti e basta. Come mi dimostrò un'altra perla di quella stessa maestra, abitudine condivisa in molte altre scuole:
Il gioco del silenzio. Per correggere in pace i compiti chiamava uno studente alla lavagna, gli chiedeva di fissare con attenzione la classe e poi di scrivere o pronunciare il nome di chi a suo giudizio era il più capace di incarnare il silenzio. Il premio consisteva nel prendere il suo posto e ricominciare. Una tortura e una beffa di vago sapore zen.
Perché in che modo se non violando le regole del silenzio, irrigidendosi in una smorfia, uno sguardo supplice e impalato per reclamare attenzione, si poteva dimostrare di essere i più abili ad interpretarlo?
Da allora sono sempre molto scettico, mi metto in stato di guardia quando qualcuno mi propone il silenzio, anche con le migliori ragioni, come quella di estraniarsi nella meditazione, o di trincerarcisi per opporsi all'eccesso di voci che ci assediano dalle tribune dei social, dal chiacchericcio dei talk show in tv.
Perché il rumore non è sempre ciò che sembra. Rumore ci sembra una lingua straniera perché non ne afferriamo il senso. Il latrato di un cane vorrà pure dire qualcosa anche se ci infastidisce nella sua diversità , come tutte le diversità , compresa la povertà , di cui per nostra comodità non teniamo conto.
Nel luogo comune del ritornello,
Il silenzio è d'oro, non colgo tanto saggezza, quanto prevaricazione, a volte snobismo da classe agiata, a volte cinismo da mercanti: il silenzio pesato e venduto un tanto al chilo, oppure ostentato come un privilegio su cui arroccarsi.
E quanto costa allora il rumore? Quello sì misurabile in decibel. Che del silenzio non è solo antagonista e specchio deformante. Come ci spiegano le teorie di comunicazione più aggiornate, per le quali nessun messsaggio può arrivarci con chiarezza percepibile senza un adeguato controcanto di aggiunte, di rumore insomma. Senza non capiamo che cosa gli altri ci vogliono dire. Quando è troppo, come le scariche d'interferenza su una radio o sul congegno di ricezione di un telefonino, capiamo ancor meno. Ci piaccia o meno la vita è rumore, sigillata dal primo vagito e dall'ultimo ansito dell'agonia. Rumore le parole, giuste e sbagliate, con cui cerchiamo di definire quell'intervallo di vuoto, spesso apparente che è il silenzio. Forse solo la morte ne possiede il segreto, nell'imporci un distacco perenne che non sappiamo bene cos'è, ma a noi vivi sembra come un sonno senza ritorno.
Ecco, il silenzio non è che una speranza, un patto di tregua. Lì almeno la responsabilità del nostro farlo. Uno stato di sospensione che risponde a varie necessità . Vi è mai capitato di stare in un bosco, che è un coro di sibili, fruscii, cinguettii, scricchiolii strascinati, e improvvisamente sentire che quel brulicare di suoni si arresta?
Succede sempre se sulla scena si affaccia qualche predatore. Le possibili vittime si acquattano tutte trattenendo il respiro, in attesa. Per non rivelare la loro presenza.
A noi umani, invece, sprofondare nel silenzio serve soprattutto a rivendicare, come una sospensione temporanea, la difesa contro un'altra aggressione, quella implacabile della nostra ragione che reclama di esser sempre connessa per guidare la marcia, azzittendo l'inconscio, e quella dell'udito che registra ogni suono senza potere di scelta.
L'importante è che la tregua duri poco. Altrimenti ecco affacciarsi per chi ha fede il timore del silenzio di Dio: a che ci serve più un Dio spettatore che non si manifesta, che non ci allontana dal dolore o dal dubbio, che non è lì quando si apre o si chiude il sipario e chissà se dopo lo sarà ? E per chi insegue il canto di sirene della malattia e dell'età che avanza ecco il fantasma della depressione. Il nonsenso della rassegnazione e dell'inerzia.
Un silenzio che non si scomoda, e molto spesso diventa complicità , omertà , delega in bianco. Un tradimento consumato ai danni della Specie.
Perché il silenzio va interrogato. Immaginato aldilà della siepe che lo sguardo esclude, perché possa partorire quel vortice d'infinito di cui ci parla Leopardi. Ascoltato per riconoscerne la voce: magari quel Suono del silenzio che ci cantavano Simon e Garfunkell negli anni 60. Impacchettato insieme a un monumento, come faceva Christo, costringendoci a domandarci se avessimo mai visto cosa c'era sotto quel velo di plastica.
O infine dipinto o scolpito nella sua essenza sfuggente, da solo o insieme al rumore che sempre lo accompagna e lo nega nel suo manifestarsi. E' il compito di verità che questa mostra, ideata da Carla Mazzoni, assegna al gruppo di artisti visivi che ha convocato.
Danilo Maestosi