Andare oltre la scrittura per trasferire sulla superficie bianca del foglio la propria intima ed emotiva dimensione.
Il giornalista Danilo Maestosi cede il corsivo segno della scrittura al raffinato fascino della pittura per imprimere alle "nuove" figure l'alito dei suoi sogni in un bisogno irrefrenabile di oltrepassare la seduzione, spesso effimera, delle parole. In una sorte di metamorfosi, la carta diviene il muro sul quale costruisce il palcoscenico cromatico di fantasmagoriche affubulazìoni, in cui si specchiano e prendono corpo le ombre del suo immaginario. Avvolte in un'aura magica, quella che Sartre chiamava "illusione d'immanenza", cioè propria di chi vuol "costruire - scrive il filosofo francese ne
ì'Imaginaire - il mondo dello spirito con oggetti affatto simili a quelli del mondo esterno e che obbedirebbero semplicemente ad altre leggi".
Sono ombre fermate quali compagne inseparabili del sembiante nascosto, tracce di un inaccessibile altrove che appartiene a spazi diversi, irriducibili, proiezioni che si allungano vibranti sul diafano chiarore della parete moltiplicandosi in una varietà di segni e colori, fissando sulla carta - come annota l'artista - "le visioni che in un trentennio di scrittura non ero riuscito a mettere in fila". Maestosi intesse un'ingegnosa ragnatela: in essa ingloba, ritaglia, intercetta, cattura le immagini del mondo esterno e le rapporta con le sue più profonde pulsioni fino a comporre una singolare polifonia. Esplosiva nel suo incessante divenire, nei suoi "infiniti infinitivamente variati", eppure straordinariamente armonica. Il muro-specchio, allora, si allarga, perde i perimetri certi della superficie, diviene universo-cosmo, assorbendo te storie, i sentieri del vissuto, le impressioni accolte al tatto, alla vista e registrate nel pieno coinvolgimento dell' "io" con le cose.
Il racconto di Maestosi, epistolario di pagine sopravvissute al tempo, si muove sul filo sottile della memoria, apparentemente fatta di percezioni e di sentimenti, ma che, in realtà, trascende in un meraviglioso composto dì sensazioni. Riproposte autonome ed autosufficienti, elevate, in un viaggio tra il rivelato e il nascosto, al di sopra dei ricordi, delle emozioni, dei fantasmi di oggetti, luoghi e persone incontrati, amati, posseduti, perduti, nostalgicamente sigillati nell'archivio segreto dell'anima.
Le sensazioni si inseguono, si concatenano, si condensano, si incastrano, si combinano, si trasmutano. Gravitano sul piano compositivo come forze contrapposte che si fondono le une nelle altre, oppure si decompongono appena intraviste o ancora si alternano, si scontrano, precipitano nuovamente nel caos da cui sono uscite. Infine, rappacificate, si riuniscono improvvisamente trovando unità nel corpo-contenitore che le ospita. Pronte a ricominciare il loro peregrinare transitando oltre i confini temporali e spaziali, dissolvendosi per aprirsi sull'universo. Maestosi si lascia andare alla libertà del gesto o, meglio, affida ad esso il desiderio di ricostruire la labile "scrittura" delle emozioni. Fa ricorso ad una memoria di linguaggio informale, ove il corpo (la materia) e lo spirito (il gesto) trascrivono le energie del suo "essere" nel mondo: una "scrittura" che non ha codice, che non eleva la parola alla certezza del significato, ma che esprime innanzitutto la sua presenza nel mondo fenomenico delle relazioni, manifestandosi attraverso il dettato dei colori utilizzati come toni musicali sulla partitura dell'anima, come armonie modulate con gli occhi.
Maestosi apre una finestra su uno spazio immaginario destinato ad una riflessione intimistica; i segni diventano contorni di varchi da cui poter sfuggire alla realtà del quotidiano: punto di fuga che l'artista introduce man mano che l'opera avanza, aprendo, mescolando, disfacendo e rifacendo, in un progetto precostituito, forme e colori fino a farle penetrare nella luce bianca del fondo. Ferito, frantumato, accorpato, annientato al punto tale da mutarlo anch'esso in colore, in elemento vitale al pari degli altri. Sono scelte, queste, che appaiono chiare scorrendo, quasi gioco rapsodico, i titoli dei lavori, tra gli altri; Squarcio, Guardando più in alto, Paesaggio sospeso, Arrampicarsi, In orbita, Caselle di infinito. Opere nelle quali l'architettura è evidenziata da segni fugacemente accennati, eppur visibili, dalla costruzione di figure geometriche, dalle aperture su cui lo "sguardo" (l'"occhio interiore" caro a Merlau-Ponty) spazia come se fossero terrazze affacciate sull'infinito, ed in cui il colore segna la trama della narrazione. Tracciata tono su tono, originata da uno solo sviscerato ed esasperato nella miriade delle nuances possibili e nel contrappunto di una tavolozza cromatica, affidata a contrasti fra colorì complementari, a cui accedere inesauribilmente. Colori modellati come graffi e carezze sull'epidermide in una violazione ed effusione del proprio riflesso sul foglio-specchio. Presenze che si disegnano "come ombre sui muri", oggi raccolte dai nostri "sguardi": preannuncio di una nuova ed auspicabile realtà.
Erminia Pellecchia