Acqua di placenta
Mediterraneo. E' l'acqua di placenta in cui mi sento immerso. In folta compagnia. Schiuma d'Oriente e d'Occidente che si frange e si mescola in milioni di destini incrociati. Libro di miti, storie, malinconie che tornano alla memoria come sogni o fantasmi. Rovine. Ombre e figure a cui è impossibile sottrarsi se ti metti al timone o butti giù l'ancora, il pennello in mano, uno spazio bianco davanti. Sulla scia dei colori rinascono forme, rimandi, racconti da evocare o da portare alla fine. Ma è un già vissuto, un già visto che appartiene anche ad altri mari. Oceani veri od ormai estinti. Altri orizzonti sommersi di gesti, sensazioni, vocazioni incompiute. Dipingere come tuffarsi dunque, sgranando gli occhi in apnea verso il fondo opaco dell'anima dove sfuma il canto delle sirene. E si acquatta la sagoma bianca di Moby Dick.
Danilo Maestosi
Libera navigazione nel Mediterraneo
Il viaggio continua ad essere il tema centrale dell'esperienza pittorica di Danilo Maestosi; un viaggio fra figure e scritture sui bordi di un Mediterraneo ancora, magicamente» luogo dì un racconto avvolto dai veli e dalle ombre del mito. Le traiettorie disegnate dal suo essere viandante nelle sconfinate mappe dell'immaginario restano ben nascoste, così come ci ha abituati sin dalla sua prima mostra ravellese, di qualche anno fa: voglio dire che si prova una certa difficoltà a legare fra loro i vari momenti a, trovare, il fil rouge della sua esperienza creativa o, meglio, dello scrittore e del pittore. Certo è, peró, che l'itinerario della sua pittura, anche negli accenti decisamente più astratti, vale a dire quando ogni residuo di traccia figurale o di segno che suggerisce una pur minima referenzialità si frantuma nell'esplosione di macchie di colore, continua a celebrare l'enigma della visibilità. Una visibilità che è volutamente indagata nella relazione fra il segno, proposto nella sua natura di scrittura, e il colore, esaltando di quest'ultimo il suo valore emotivosimbolico, ossia cedendo al fascino di disporre all'infinito la scala narrativa dei minimi passaggi tonali, di articolare l'espressione servendosi dei contrasti o, meglio, affidando al dettato cromatico gli impercettibili movimenti dell'anima. Maestosi non rinuncia alla sua origine di giornalista e di scrittore attento a trattenere la realtà nell'ordinato codice proprio della scrittura. Quest'ultima non gli basta, peró, a comunicare la molteplicità delle passioni, delle ansie, delle gioie, dei dolori, dunque il mondo delle emozioni, quando - osservava Sartre - la coscienza cade bruscamen
te nel magico. Lo sguardo, l'occhio che vede ed ascolta, traccia di volta in volta nuovi itinerari: la meta o le mete sono luoghi di atmosfere sospese, animate da qualcosa che sfugge, che non puó essere affidato alla sola consequenziale linearità del segno e che apre a misteriosi viaggi seguendo una libera rotta, bordando punti immaginari segnati sulle carte della fantasia. Insomma Maestosi sembra voler seguire una strada diversamente orientata rispetto a quella che Italo Calvino, in chiusura della quarta delle sue lezioni americane dedicata alla "visibilità", disegna per la scrittura. Le "realtà" come le "fantasie", scrive quest'ultimo, possono "prendere forma solo attraverso la scrittura, nella quale esteriorità e interiorità, mondo e io, esperienza e fantasia appaiono composte della stessa materia verbale; le visioni polimorfe degli occhi e dell'anima si trovano contenute in righe uniformi di caratteri minuscoli o maiuscoli, di punti, di virgole, di parentesi; pagine di segni allineati fitti fitti come granelli di sabbia rappresentano lo spettacolo variopinto del mondo in una superficie sempre uguale e sempre diversa, come le dune spinte dal vento del deserto".
Maestosi non rinuncia ad attraversare i territori delle visioni polimorfe degli occhi e dell'anima; non rinuncia, soprattutto, a dare ad esse il corpo della pittura, con la sua seducente offerta di strutturare nuovi "mondi" dell'anima. L'artista romano lascia la metafora, divenuta per lo "scrittore" un luogo-modello fin troppo abusato, per incamminarsi nei sentieri delle suggestioni analogiche suggerite dalle immagini: si serve, cioè, di figure (le sagome maschere), di spazi (le architetture dei pendii della costiera amalfitana), di forme (sobillate dai contrasti fra colori puri, il giallo dei limoni che s'incastra sulla piana dimensione del blu oltremare) per ritrovare il filo di un racconto personale, di quel suo lasciarsi andare nei movimenti delle maree che disegnano gli instabili perimetri del nostro quotidiano. Un racconto scritto a mo' di diario, tavola dopo tavola, immagine dopo immagine: il risultato è una sorta di diario di bordo, proprio come quelli dei vecchi navigatori, ove sono segnati i punti provvisori, quelli stimati, le misure delle distanze dalle cose reali, da quegli approdi della realtà dei quali l'artista non vuole fare a meno. La scelta, infatti, di lasciar filtrare frammenti di una figurazione classica, penso ad esempio le due figure che campeggiano al centro del dipinto L'après-midi d'un faune o, anche, Calypso, Il sonno della Sibilla, indica proprio il desiderio di ancorare la pittura ad elementi di una visione referenziale, di servirsi, cioè, di composizioni analogiche disposte a sollecitare il ricordo, ossia il tempo. Un ancoraggio che talvolta l'artista sospende tra figure immaginarie, forme prossime al mondo dell'astrazione o più canonicamente a quel mondo dell'interiorità che egli ama scavare attingendo da quella circumnavigazione dello sguardo, pronto a restituire alla pagina pittorica quella realtà ricercata e trasformata dai fantasmi della visione.
Massimo Bignardi